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La fine della Seconda guerra mondiale è stato un momento cardine della storia globale recente. Lo scoppio della bomba atomica, la caduta di Hitler e la scoperta dei campi di concentramento sono solo alcuni dei momenti più tragici che l’hanno coinvolta.

Non tutti tuttavia conoscono la tragicità che ha assunto il conflitto per l’esercito giapponese, negli ultimi mesi di guerra. Le truppe erano divise su di un territorio immenso, che spaziava dalla Cina continentale all’intero oceano Pacifico, fino nell’attuale Russia. Inoltre la marina militare era stata praticamente distrutta e l’Impero nipponico era arrivato a un punto di rottura tale che aveva a sua disposizione solo pochi aerei e generali affidabili.

Poco prima dello scoppio della bomba nucleare a Hiroshima e a Nagasaki, il governo giapponese tuttavia non aveva intenzione di rinunciare al conflitto poiché, come avrebbero di seguito affermato gli stessi ambasciatori giapponesi a Washington e Mosca, i militari per firmare un documento di pace non volevano cedere su due punti specifici: il territorio storico del paese – ovvero l’arcipelago di isole che comprendono le 5 grandi isole (Hokkaidō, Honshū, Kyūshū, Shikoku e Okinawa) più le 14.120 isole minori – doveva restare sotto il controllo diretto del governo giapponese e, soprattutto, nessuna responsabilità della guerra sarebbe dovuta ricadere sulla figura politica e religiosa dell‘imperatore Hirohito, che sia l’URSS che la Cina volevano deporre a favore di una repubblica comunista e condannare insieme a tutti i generali militari giapponesi.

Fortunatamente, le pressioni sollevate da un eventuale conquista del Giappone da parte dell’URSS spinsero Gran Bretagna e Usa ad accettare queste due proposte, non prima tuttavia di combattere gli ultimi mesi di guerra nel Pacifico, sganciando ad inizio agosto le due bombe atomiche con l’idea di concludere il conflitto in fretta.

Durante le ultime settimane di guerra, i soldati giapponesi erano però talmente disperati nel tentativo di respingere gli assalitori nemici che inventarono delle nuove armi e delle strategie militari di ripiego, considerate poco efficaci dagli storici ma all’epoca altamente distruttive in termine di vite umane.

Una di queste armi era il kaiten. Una sorte di missile, che veniva prodotto utilizzando gli scheletri dei siluri non utilizzati o dismessi e che veniva guidato fino all’obiettivo da un pilota kamikaze. Il loro uso era pensato per colpire il più velocemente possibile le navi nemiche, nuotando silenziosamente poco sotto il livello della superficie dell’oceano.

Ognuna di queste armi aveva uno spazio molto ridotto, tanto che potevano accedervi solo un pilota, delle bombole di ossigeno (che gli permettevano di respirare), la strumentistica per il timone, il giroscopio (con cui i soldati individuavano il nemico attraverso una lente) e una carica di 1.400 kg di esplosivo. Al momento dell’impatto, per sincerarsi che l’esplosivo facesse davvero effetto, il pilota poteva anche sparare un colpo di pistola in direzione delle bombole d’ossigeno, con l’intento di creare una fiammata che procurasse i maggiori danni possibili alle navi nemiche.

I kaiten erano solitamente sganciati da dei sommergibili opportunamente modificati, posti nelle vicinanze della costa che con poco carburante cercavano di raggiungere i potenziali siti di sbarco degli americani, seguendo il motto che “nulla avrebbe dovuto sbarcare sulle isole, senza soffrire”. La differenza principale fra questi mezzi e i sottomarini utilizzati da entrambi gli eserciti, nelle prime fasi della guerra, era che quest’ultimi non avevano bisogno di una nave madre e potevano raggiungere le profondità, mentre i sommergibili per attraversare grandi distanze hanno bisogno di un supporto di superficie e non possono raggiungere gli abissi.

I giapponesi decisero di utilizzare i kaiten e i sommergibili durante le fasi finali della guerra perché non avevano altri mezzi con cui difendersi e l’unico loro scopo era proteggere la loro patria. Ciascun soldato veniva persino addestrato ad accettare il suicidio come strategia nobile di combattimento, da usare all’occorrenza per rallentare gli invasori.

Per quanto i kaiten si rivelarono delle armi temibili per la marina statunitense, il sacrificio di questi soldati risultò comunque vano. L’attacco definitivo che avrebbe decretato la parola fine al conflitto sarebbe infatti giunto dall’alto, non dall’oceano, e i 205 piloti kamikaze che morirono dentro i siluri riuscirono a portare via agli americani solamente 2 navi.

In parole povere, i piloti dei kaiten furono delle vittime non necessarie delle ultime fasi della guerra, che sarebbero potuti sopravvivere fino a vedere la rinascita del loro paese, se solo l’indottrinamento dei loro generali non li avesse convinti a morire invano.



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