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Un nuovo studio pubblicato sul Physical Review Letters si è servito di un metodo innovativo per analizzare le onde anomale, un fenomeno ancora oggi poco chiaro e dalle origini perlopiù sconosciute. Vediamo insieme i risultati.

Le onde anomale (chiamate rogue waves in inglese) vengono descritte da tempo – nelle storie popolari – come dei terrificanti colossi nell’acqua; ma le recenti tecnologie ci permettono di identificarle in mare con più facilità, e l’attuale definizione prevede che l’onda sia alta almeno il doppio di quelle circostanti.

La maggior parte di queste raggiunge un’altezza tra i 25 e i 30 metri; non a caso la prima e più famosa misurazione fu l’onda Draupner, un colosso di 25,6 metri, verificatosi nel 1995 nel Mare del Nord.

Tuttavia, nonostante i progressi fatti (anche grazie alle AI in grado di prevedere le onde anomale), le cause che portano alla loro formazione rimangono misteriose. Ci sono alcune caratteristiche che conosciamo, come ad esempio il fatto che i venti forti influiscano sulla loro formazione, poiché più l’onda è alta più il vento soffia forte su di essa, creando un progressivo incremento dell’onda fino a quando la sua velocità non supera quella del vento. Rimangono però altri elementi da considerare.

Come spiega il professor Alessandro Toffoli, ricercatore all’Università di Melbourne, il suo team ha utilizzato un sistema di immagini tre-dimensionali per scansionare la superficie dell’oceano, fornendo dettagli approfonditi. Durante il loro passaggio in barca, i sensori hanno raccolto i dati sia sulle onde giovani influite dai venti che quelle mature.

Le onde anomale registrate sono state una ogni sei ore circa, e i risultati hanno mostrato una tendenza delle onde giovani ad auto-amplificarsi, aumentando le probabilità di crescita.

Proprio come previsto dal loro lavoro teorico, i ricercatori hanno infine riscontrato che nelle condizioni oceaniche caratterizzate da onde mature, la formazione di onde gigantesche è del tutto assente.



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