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“Nel cinema, non tutto è cultura: almeno il 70% dei film che si girano e si producono non ha niente che fare con la cultura, semmai con il commercio, con il mercato, con la rassegnazione alle mode. Negli ultimi vent’anni, il cinema italiano ha espresso quasi soltanto film carini, prodotti destinati, dopo aver transitato quel tanto che basta nelle sale cinematografiche per maturare il tax credit, ad andare sulle piattaforme, con facili racconti e cast molto popolari…”. E’ l’accusa che lancia il regista Pupi Avati, intervenendo alla tavola rotonda dal titolo ‘Per un nuovo immaginario italiano’, in occasione della celebrazione del decennale di fondazione di Fratelli d’Italia in piazza del Popolo a Roma, con il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, in collegamento streaming.

Racconta poi Avati: “Io sono arrivato al cinema molto tardi, attraverso un percorso impervio: sono regista perché sono un jazzista fallito, per colpa di un ‘nanerottolo’, Lucio Dalla, che pur essendo un secondo clarinetto mentre io ero il primo destinato agli ‘assoli’ mi fece scoprire e capire cosa è il talento e la creatività, con una genialità commovente. Ebbi una atroce invidia nei suoi confronti, mi resi conto che non disponevo di un talento alla sua altezza, desiderai la sua morte lì sul palco ma purtroppo non morì – osserva con sarcasmo – E allora decisi di abbandonare la musica: nessuno mi chiese di ripensarci… e ancora oggi mi considero un musicista fallito”.

(di Enzo Bonaiuto)

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