Vivere con disabilità in Italia significa ancora troppo spesso isolamento e solitudine, oltre a un ridotto accesso a cure e servizi e innumerevoli altre difficoltà. Mentre torniamo a ribadire la necessità di politiche più incisive per migliorare il sostegno, anche ma non solo a livello medico-sanitario, incontriamo Federica Gregni, madre di tre e fondatrice dell’Associazione Divertitempo, Onlus con cui Fondazione Consulcesi da mesi cammina “insieme nella storia”, per farci raccontare cosa significa adoperarsi per realizzare opportunità di socializzazione e integrazione sociale “a due vie” di cui a partire dalla giovane età le persone affette da disabilità hanno fondamentale bisogno.

Se fino a non molto tempo fa per disabilità si faceva riferimento a una limitazione dell’individuo da trattare esclusivamente come problema medico, con la Convenzione delle Nazioni Unite del 2006 l’attenzione si sposta, almeno a livello teorico, sul contesto sociale, riconoscendo alla persona con disabilità il medesimo diritto delle persone normodotate di essere protagonista delle relazioni e dell’ambiente in cui vive.

L’ONU definisce infatti disabilità «durature menomazioni fisiche, mentali, intellettive o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».

La disabilità in Italia

In Italia, secondo l’ISTAT, sono quasi 13 milioni le persone con disabilità, di cui oltre 3 milioni affette da una condizione grave (pari al 5,2% della popolazione). A scarseggiare, ancora, nel nostro Paese, sono i servizi, come pure le risorse stanziate a loro favore (28 miliardi di euro secondo i dati 2018), troppo basse e destinate nella stragrande maggioranza a pensioni, lasciando le famiglie in difficoltà nel tentativo di sopperire alle mancanze delle istituzioni nazionali e locali.

Sempre secondo gli ultimi dati ISTAT, in Italia quasi una persona disabile su tre (32,1%) è a rischio di povertà, ben 600 mila vivono in una situazione di grave isolamento senza alcuna rete su cui poter contare in caso di bisogno, e tra queste circa 200 mila vivono completamente da sole. Meno della metà delle persone con limitazioni e limitazioni gravi dichiarano inoltre di poter contare su una rete disocializzazione con amici e di rete di supporto, rispettiavamente il 43,5% e il 36,6%.

«La disabilità è una condizione che interesserà sempre più italiani, grazie al costante allungamento della aspettativa di vita, per questo il nostro Sistema di welfare si troverà ad affrontare una domanda crescente di servizi per assicurare a queste persone l’assistenza sanitaria e sociale e il diritto a vivere una vita indipendente» aveva dichiarato il dottor Alessandro Solipaca, responsabile Scientifico dell’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane diretto dal professor Walter Ricciardi in occasione della Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità del 3 dicembre 2022.

«Una sfida che il welfare moderno deve superare abbandonando l’approccio risarcitorio che caratterizza molti degli interventi di protezione sociale del nostro Paese, basati quasi esclusivamente sui trasferimenti monetari, trascurando completamente se questi siano efficaci ad assicurare loro il diritto a vivere la vita al pari delle altre persone».

In questo contesto, le associazioni, le famiglie e i caregivers ricoprono da sempre e con crescente aumento un ruolo fondamentale. È proprio a questi che si devono infatti gli innumerevoli progetti esistenti in Italia volti alla promozione dell’inclusione sociale e dell’autonomia delle persone con disabilità.

Come quelli sostenuti dalla Fondazione Consulcesi e realizzati dall’Associazione Divertitempo, Onlus nata dal desiderio di creare opportunità per bambini con bisogni speciali e disabilità, cosi come anche per le loro famiglie, per sentirsi parte di una comunità, quindi di poter vivere il territorio, sentendosi sostenuti da una rete sociale tutelante, organizzata e fruibile per tutti.

Cosa significa essere genitore di un bambino con disabilità e allo stesso tempo impegnarsi per un progetto collettivo ce ne parla Federica Gregni, fondatrice di Divertitempo e mamma di tre figli, Francesco, bambino con disabilità e di due bambine normodotate.

Come è nata l’Associazione Divertitempo?

L’associazione segue in qualche modo la crescita di mio figlio Francesco. Tutto è iniziato da una  raccolta fondi che avevamo deciso di lanciare in seguito ad un ricovero di Francesco. La degenza, durata tre mesi aveva lasciato un bagaglio pesante sulle sue e sulle nostre spalle, così decidemmo di trarne qualcosa di positivo e raccogliere fondi per l’Ospedale Bambin Gesù: facendo un libro fotografico molto bello raccogliemmo una cifra importante da privati. Ma dopo un paio d’anni abbiamo deciso di fare di più, volevamo creare qualcosa a Km0 alla scuola Zandonai. Decidemmo che era importante far uscire questi ragazzi dal contesto scolastico e creare delle attività che permettessero loro di scoprirsi anche oltre le aule di scuola. Questa esigenza nasceva dal fatto che i compagni normodotati vedono i compagni con disabilità come bambini che fanno altro rispetto a loro, stando sotto l’ombrello della didattica le loro capacità non emergono perché anche se non sono bravi a fare calcoli matematici, ci sono molte altre cose che possono e sanno fare. All’epoca la scuola già faceva laboratori che univano le due categorie e i normodotati rimanevano stupiti nel vedere che chi ha diverse abilità per esempio sapeva dipingere.

Poi nel tempo le attività dell’Associazione si sono diversificate perché abbiamo notato che la difficoltà con la crescita dei ragazzi sta nel fatto che più si va avanti con l’età più la forbice che rende normodotati e diversamente abili differenti si allarga. Crescendo gli interessi dei bambini si personalizzano, per cui inizia l’agonismo e le differenze sono più forti. Occorre fare una crescita aumentando le proposte. Per cui abbiamo modificato il tipo di uscite per adattarci alla loro età organizzando per esempio concerti o visite allo stadio.

Cosa si concretizza l’inclusione sociale?

«Se ovviamente è fondamentale la partecipazione di bambini e ragazzi normodotati, è altrettanto importante che anche questi si divertano e non percepiscano le attività come limitanti per loro, altrimenti il compagno con disabilità verrebbe vissuto come limitante. Il normodotato deve pensare “ vado al Colosseo con i miei amici” e non “devo andare”, così nel “tutti” ci sono davvero tutti. L’inclusione può avvenire solo in maniera naturale, non può essere forzata».

Quanti bambini speciali beneficiano dei progetti di Divertitempo?

«Circa 14 ragazzi con disabilità che sono inclusi nei progetti e circa 100 normodotati all’ anno».

Quanti eventi “Insieme nella storia” sono stati organizzati con il sostegno della Fondazione Consulcesi?

«Sette al momento. Dal primo evento, il laboratorio culinario a tema natalizio, fino alle varie uscite alla scoperta delle bellezze del territorio di Roma e provincia come la Villa Farnese di Caprarola, Castel Sant’Angelo, il Parco degli Acquedotti, i Fori Imperiali, solo per citarne alcuni».

Cosa significa concretamente avere un figlio con bisogni speciali?

«Per una famiglia, per un genitore tutto parte dall’accettazione. Non accettare la propria situazione rende il carico enorme e la gestione estremamente complicata. Tale accettazione deriva dalla prevedibilità. Faccio un esempio: se io vado a dormire la sera e penso che dormirò tutta la notte e invece Francesco si sveglia e resta sveglio tutta la notte per me questa situazione è pesante e tutto il suo insieme diventa qualcosa di inaccettabile. Viceversa se parto dalla consapevolezza che queste situazioni possano verificarsi, sono preparata e il loro peso sulle mie spalle è inferiore, non si annulla, ma diventa gestibile. Inoltre la famiglia che affronta la disabilità fa i conti con una certa vergogna nell’esporre la propria condizione. Ci sono genitori che sono a disagio se il figlio, mentre sono al supermercato si butta per terra gridando.  Ma cambiando la prospettiva, infrangendo questo muro, ti fai quasi forte della disabilità di tuo figlio finisci per trasformarla in un’opportunità. Ogni famiglia può scegliere di lasciare che la disabilità di un figlio diventi un vincolo per le vite di tutti, facendo si che tutto ogni giorno ruoti intorno alle sue esigenze oppure si può cercare di esporlo a varie esperienze sin da quando è piccolo per non vivere costretti, né precludergli di accumulare un bagaglio esperienziale che lo faccia crescere nel suo modo speciale».

Di cosa avrebbero bisogno le famiglie ed i bambini disabili?

«Per la mia esperienza l’ottimale sarebbe che ogni scuola fosse dotata di spazi adeguati con ambienti e strumenti  sensoriali, che ospitino sia bambini con diverse abilità che bambini normodotati, ma anche spazi esterni per laboratori outdoor e attività extrascolastiche, poli di aggregazione. Inoltre sarebbero necessarie figure professionali specializzate e che il personale scolastico fosse sufficientemente preparato, perchè spesso il diversamente abile viene considerato esclusiva responsabilità dell’insegnante di sostegno, ma in realtà il bambino fa parte della classe e come tale andrebbe gestito dall’intera classe inclusi insegnanti e compagni. A tale scopo abbiamo iniziato quest’anno un progetto pilota con i ragazzi delle medie, che forma i compagni di bambini con disabilità delle medie a relazionarsi con loro e a fornire loro supporto. Un ragazzo con disabilità ed un compagno normodotato trascorrono un mese a banco insieme, ai ragazzi vengono fornite informazioni sui diversi meccanismi di apprendimento, in questo modo il bambino normodotato comprende per presa diretta il comportamento del suo compagno. In questa maniera il diversamente abile non ha come unico e solo punto di riferimento l’insegnante di sostegno ma ha più riferimenti per cui làddove venga a mancare la figura di supporto ne ha altre a cui guardare invece di subire uno stato di disagio, nel momento in cui tale figura viene a mancare per un qualsiasi motivo. Inoltre questo permette di evitare comportamenti disfunzionali da parte del bambino con disabilità, che potrebbero renderlo elemento di disturbo o di rallentamento della classe, impedendo quindi una relazione armoniosa».

Quali sono le difficoltà che vi siete trovati ad affrontare nella gestione delle attività di Divertitempo?

«La difficoltà nel fare inclusione a due vie spesso sta nel fatto che chi si occupa di disabilità gestisce solo i diversamente abili mentre noi cerchiamo di gestire due categorie di gruppi eterogenei. Spesso per fare questo lavoro devi avere la fortuna di incontrare professionisti illuminati in un certo senso perché altrimenti la parola “inclusione” rischia di restare vuota, quando in realtà si porta dietro tante piccole cose nel quotidiano e necessita di un coinvolgimento di tutte le parti».

Come pensate che sia cambiata la vita di questi bambini e delle loro famiglie da quando partecipano agli eventi  “Insieme nella storia”?

«Per quanto riguarda i bambini diversamente abili sicuramente i progetti permettono la crescita della loro rete sociale e soprattutto dei loro legami con i coetanei. Per quanto riguarda i bambini normodotati, queste occasioni gli permettono di scoprire aspetti dei loro compagni diversamente abili, che altrimenti non avrebbero modo di conoscere, scoprire per esempio come comunicano, come prendersene cura, le cose che sono capaci di fare.  Inoltre entrambe approfondiscono temi culturali e scoprono luoghi che magari non avrebbero modo di visitare».

Come il progetto “insieme nella storia” sta aiutando le famiglie di bambini disabili?

«Un aspetto è sicuramente dare alle famiglie delle giornate meno condizionate dai bisogni speciali dei figli. Qualunque genitore necessita ogni tanto di staccare dalle responsabilità e dalla programmazione che nelle famiglie con disabilità è particolarmente rigida. In questi nuclei familiari spesso le giornate sono modellate sulla base delle esigenze del bambino ancora di più, che nelle altre. Cose semplici come il luogo in cui andare a mangiare o addirittura la strada da fare per spostarsi da un posto ad un altro, possono diventare cause di stress poiché fanno deviare rispetto alla comfort zone a cui il bambino è abituato, ma noi tutti sappiamo che la vita è piena di imprevisti. Se io dico a mio figlio che lo porto a scuola, ma per un qualunque motivo ( traffico, incidente, ecc..) sono costretta a cambiare strada lui va in ansia perché non capisce dove lo sto portando. Ci si trova a dover risolvere continuamente piccoli e grandi problemi. Ecco dunque il valore, per il genitore, di giornate di questo tipo. Inoltre questi eventi permettono di fai vivere ai loro figli esperienze che altrimenti non vivrebbero. Per i diversamente abili il fine settimana è un tempo che io definisco “di vuoto cosmico”, non ci sono attività, non c’è la scuola, non c’è personale dedicato e tutto ricade sui genitori. Mentre gli altri bambini nel weekend hanno amici da incontrare, i diversamente abili devono stare a casa con mamma e papà e questo contribuisce a renderli eterni bambini, a non vivere le esperienze proprie della loro età. Questo gap non li fa crescere e li mantiene fragili e diversi dagli altri, quando invece anche loro crescono e avrebbero necessità di frequentare dei coetanei e fare quello che fanno i bambini della loro età».

Cosa raccontano i bambini di queste esperienze?

«Attraverso i nostri eventi i ragazzi normodotati riescono a capire le preferenze dei loro compagni:  cosa gli  piace fare, cosa li turba ed in questo modo possono essere di supporto a questi ragazzi, riuscendo a conoscerli si avvicinano e diventano dei tutor non adulti ma coetanei, che possono essere di sostegno e questo li responsabilizza. La cosa che io trovo magica è che quando si raggiunge questo livello il bambino normodotato non cerca di trascinare l’amichetto con disabilità nelle sue attività, nelle sue competenze, ma piuttosto si lascia andare al suo mondo, si avvicina a lui facendo quello che piace fare al ragazzo diversamente abile. È chiaro che loro non sanno fare alcune cose, ma se gli piace fare la torre con i cubi il normodotato non pretende che lui giochi a palla, ma si mette a giocare con i cubi. Trovo che questo attivi una sensibilità che è meravigliosa».

Cosa ricordi con più piacere degli eventi fatti insieme?

«Ad ogni evento mi colpisce lo sguardo sereno con cui le famiglie lasciano i ragazzi ed è la più grande soddisfazione perché loro si fidano e si affidano. Vedere che possono lasciare i figli con serenità e staccare la testa mi gratifica molto perché so che responsabilità sia accudire i figli ed in modo particolare nelle necessità quotidiane di un figlio con bisogni speciali.  Dico sempre agli operatori quanto sia importante il momento del raduno, dell’accoglienza quando arrivano i ragazzi, perché il genitore deve sapere che sta affidando il proprio figlio a mani amorevoli di chi farà tutto il possibile, per fargli vivere un’esperienza divertente ed in sicurezza, che sarà protetto come se fosse in famiglia. Poi quando piano piano arrivano tutti i partecipanti vedi che anche l’espressione dei bambini con disabilità cambia perchè si sentono parte di qualcosa, di un gruppo, di una comunità e non sono più individui soli o isolati».

Quali sono le prospettive future dell’Associazione in cui la Fondazione può fornire il suo supporto?

«L’associazione nasce da esigenze concrete e sulla stessa concretezza si basa la sua crescita, che segue un pò il percorso di mio figlio Francesco rispondendo ai problemi reali di un individuo che sta crescendo e al cambiamento dei suoi bisogni. Per queste ragioni cerchiamo di gestire attività che si adattino ad interessi che cambiano nel tempo.  Per esempio stiamo organizzando un campo estivo in montagna, si tratterà della prima esperienza di pernotto per i nostri ragazzi. Inoltre abbiamo in campo un progetto con la scuola Nitti, per la creazione di un orto sinergico e laboratori scolastici attraverso il quale i ragazzi costruiscono una serra, si prendono cura dell’orto e partecipano a diversi laboratori come quello per la creazione di sale aromatico».

 



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