Gentile Direttore,

La vicenda di Elena riportata nelle cronache nazionali rileva un’assenza delle cure palliative nel percorso terapeutico. Nell’analisi della video testimonianza (emersa post-mortem) affiorano angoscia, disperazione, paura e come unica soluzione, senza alternative, il suicidio assistito: “Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo, questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola”. Le cure palliative si articolano proprio in questa fase di comunicazione di diagnosi e di prognosi mettendo in campo diverse professionalità tra cui anche quella di psicologi competenti per quanto riguarda la terminalità. Di casi come quello di Elena ve ne sono tantissimi e, come Elena, esprimono il desiderio di concludere il proprio ciclo biologico vicino ai propri cari ed è proprio questo che permettono le cure palliative, allontanando lo spettro di quell’ inevitabile inferno citato dalla paziente. Le dichiarazioni di staccarsi dalla propria famiglia per proteggerla risuonano come una mancata occasione di attivazione del “early palliative home care” che in questo caso avrebbe permesso di contenere l’angoscia e i sintomi fisici della malattia ed Elena sarebbe stata nel proprio letto, tenendo la mano dei propri cari, fino all’ ultimo. Le cure palliative, quindi, prendono in carico anche i bisogni della sfera psichica del paziente coordinandosi con le altre specialità mediche ormai in maniera consolidata. Nel rispetto delle scelte personali e della normativa vigente noi palliativisti dobbiamo convincere l’opinione pubblica dell’efficacia della medicina palliativistica e della necessità di intercettare precocemente i gridi di aiuto dei pazienti.

 

Bruno Nicora, Medico palliativista



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