Il 23 maggio 1992, la strage di Capaci segnò un tragico epilogo nella lotta contro la mafia, con la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Un potente ordigno esplosivo, di 5 chili di tritolo, fece saltare in aria l’autostrada A29. Questo attentato si colloca nel contesto del maxiprocesso alla mafia, iniziato il 10 febbraio 1986, che portò a significative condanne.
Falcone, insieme a Paolo Borsellino, rappresentava un simbolo di speranza nella lotta contro Cosa Nostra, ma nel corso degli anni affrontò anche gravi attacchi, inclusi tentativi di delegittimazione e un attentato all’Addaura nel 1989. Il suo operato costò caro, con i precedenti omicidi di colleghi e collaboratori, e culminò in una campagna di odio orchestrata da settori collusi con la mafia.
Due giorni prima della strage, il deputato Vittorio Sbardella rilasciò dichiarazioni inquietanti, paragonando la situazione politica del momento a quella del 1978, periodo del rapimento di Aldo Moro, e ipotizzando la possibilità di un evento tragico simile a un attacco terroristico.
Le indagini sull’attentato hanno portato a condanne definitive, con Giovanni Brusca responsabile del telecomando che azionò l’esplosione. Il processo ha coinvolto molti dei principali membri della mafia, compreso Matteo Messina Denaro, condannato all’ergastolo nel 2023 e deceduto pochi mesi dopo. A trent’anni dalla strage, restano aperti interrogativi sul contesto politico e sulle connivenze esistenti.
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Fonte: www.virgilio.it