Le raccontavo della volta in cui era venuto a prenderci a scuola coi pattini in linea, travestito da Davy Crockett; o quando, in un giorno d’estate, si era presentato sulla spiaggia in completo e cappello di feltro in una capanna di paglia rimorchiata da una barchetta di pescatori urlando: «Aiuto! Aiuto!» davanti alla gente che rideva.
Le raccontavo che aveva portato mia madre in un angolo sperduto dell’India per incontrare una donna anziana che faceva il miglior chai del Rajasthan e che lui sembrava conoscere da sempre. Le parlavo delle mattine che lui e io passavamo nel suo letto a guardare i cartoni animati: ero sempre malata e all’asilo ero molto triste, così mia madre mi infilava sotto le coperte accanto a lui.
Le parlavo infine del suo ufficio, vero riflesso della sua anima, le descrivevo le luci calde, i mucchi di documenti, il letto – elemento essenziale di un buon ufficio -, le lettere che chiudeva con un sigillo di ceralacca, le incisioni, la lozione verde che si metteva sui capelli, i bigliettini che infilava sotto i bordi dello specchio, le pile di libri, le statuette antiche, i quadri – alcuni ritratti, le baie di Napoli, le sanguigne di cui mi ricordavo in modo vivido.
Quell’antro era la mia stanza preferita dell’appartamento in cui sono nata.»
“Il ricordi degli altri”: un viaggio in Italia sulle tracce di un padre idealizzato ma sconosciuto.