La clamidia è un’infezione sessualmente trasmissibile (IST) diffusa, causata dal batterio Chlamydia trachomatis. Riconosciuta per la sua natura asintomatica, può infettare varie parti del corpo, tra cui cervice, uretra, testicoli e, recentemente scoperto, anche l’intestino. Uno studio condotto dall’Università di Würzburg suggerisce che l’intestino umano possa fungere da “serbatoio naturale” per la clamidia, permettendo al batterio di sopravvivere agli antibiotici e causando reinfezioni con lo stesso ceppo.
Il team, guidato da Thomas Rudel, ha ipotizzato che la clamidia potrebbe stabilirsi in aree del corpo inaccessibili agli antibiotici. Questa scoperta, se confermata, pone interrogativi sulle attuali pratiche di trattamento. La clamidia, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, colpisce oltre 129 milioni di persone annualmente e può provocare gravi complicazioni, specialmente nelle donne, come malattia infiammatoria pelvica e infertilità.
I sintomi variano tra uomini e donne. Negli uomini, includono secrezioni anomale e dolore durante la minzione; nelle donne, possono manifestarsi secrezioni vaginali anomale e dolore pelvico. La diagnosi avviene attraverso test di laboratorio che identificano il DNA del batterio in campioni di urina o tamponi. Il trattamento standard consiste in una terapia antibiotica con azitromicina o doxiciclina, ma è fondamentale completare il ciclo prescritto.
Lo studio sui modelli cellulari ha mostrato che, mentre l’intestino sano respinge l’infezione, i batteri riescono a penetrare nei tessuti danneggiati, insinuandosi più profondamente. Questa è la prima segnalazione di infezione da C. trachomatis nelle cellule intestinali umane.
Se l’ipotesi del serbatoio intestinale si confermasse, le implicazioni per il trattamento della clamidia sarebbero significative. Potrebbe essere necessario rivedere le linee guida per gli antibiotici, considerando regimi più prolungati o farmaci più penetranti. Inoltre, la ricerca potrebbe concentrarsi su strategie per prevenire la formazione di serbatoi batterici e ridurre le reinfezioni.
In sintesi, la scoperta potrebbe rivoluzionare il modo di affrontare la clamidia, evidenziando l’importanza di una comprensione approfondita dell’infezione per proteggere la salute pubblica globale.