
Inoltre, Covid-19 sui pazienti neurologici è mediamente più severo. Lo stesso è vero per chi, con Covid, va incontro a ictus ischemico cerebrale. «In Lombardia, lo studio Strokovid è stato condotto in tutti i dieci centri identificati come hub per l’ictus. I dati raccolti tra marzo e aprile, un migliaio di ictus, mostrano un andamento peggiorativo nei pazienti con Covid-19» ha spiegato Carlo Ferrarese. L’impatto di Covid ricade sulla prontezza dei trattamenti e sulla risposta dell’organismo. Come mostra un’analisi di 296 casi di ictus tra marzo e aprile, ci sono maggiori effetti collaterali, come le emorragie in seguito al trattamento di rimozione del trombo, eseguito su 100 di loro, esiti di malattia peggiori e maggiori ritardi nella gestione intraospedaliera, soprattutto nella prima fase.
«I microdanni ischemici diffusi nel cervello dei pazienti possono essere causati da alterazioni della coagulazione innescate dal legame del virus alla parete dei vasi sanguigni» ipotizza Ferrarese. A peggiorare la situazione, poi, c’è la generale infiammazione accesa dall’infezione virale, con un aumento delle chitochine in circolo. «Proprio per questo il cortisone, che spegne l’infiammazione, oltre agli anticoagulanti, che riducono l’ipercoagulabilità, vengono spesso utilizzati nelle forme gravi di COVID-19».
Fin dalle prime fase di pandemia, la Sin aveva denunciato un crollo dei casi ictus, anche nei centri stroke: dove erano “scomparsi” tutti i pazienti? Un dramma per una malattia tempo-dipendente in cui aspettare significa importanti danni permanenti motori e cognitivi, quando non la morte. Superata la fase acuta, capire cosa succede nel lungo periodo diventa cruciale, tanto che la Sin ha già promosso uno studio in 45 neurologie italiane che stanno raccogliendo la casistica dall’esordio dei sintomi neurologici fino a sei. Il progetto, che terminerà a giugni 2021, contribuirà alla stesura di un registro consultabile dalle altre società neurologiche europee che stanno svolgendo lo stesso lavoro coordinate dalla European Academy of Neurology.
Al congresso si parlerà anche di sonno, disturbato mediamente in 12 milioni di italiani, cifra salita durante la pandemia a 24 milioni; di promettenti studi sui pazienti con disturbi della coscienza come quelli in stato vegetativo; e anche, come ha spiegato il presidente della Sin Gioacchino Tedeschi «di telemedicina e salute digitale, oggetto di corsi di formazione che la Sin proporrà ai suoi neurologi, e workshop pratici con la Apple Academy».
Ma, soprattutto, si tornerà a parlare di Alzheimer, per fare il punto su quale sia la migliore combinazione di biomarcatori, in termini di sensibilità e specificità, di fattibilità e di sostenibilità di costi, per la diagnosi precoce e l’individuazione dei soggetti ancora senza sintomi o con disturbi cognitivi lievi che svilupperanno la malattia. I vari marcatori sono di tipo neuropsicologico, gli esami di risonanza magnetica, FDG PET (e forse PET amiloide), l’esame del liquor per misurare i livelli delle proteine neurotossiche beta amiloide e tau, il rischio genetico e, infine, l’EEG elettroencefalogramma per lo studio della connettività cerebrale. Quando arriverà la cura, sapremo a chi darla. Parole di ottimismo per un esame del sangue diagnostico sono venute da Alessandro Padovani, Direttore Clinica Neurologica Università di Brescia:«Un gruppo di ricercatori svedesi ha studiato una proteina, p-Tau217, correlata alle alterazioni neuropatologiche tipiche dell’Alzheimer. Elevati valori nel sangue predicono la presenza della malattia con una accuratezza superiore all’80%». Diagnosi precoce e conoscenza del rischio individuale significa, ricorda Padovani «anche adozione di un buono stile di vita, con adeguata stimolazione fisica e cognitiva, che ormai sappiamo essere protettivo e modificare la storia naturale della malattia». Per mettersi al riparo da essa, infine, sport ma con estrema attenzione ai traumi cerebrali, niente alcool, niente tabacco, buon livello di istruzione e vita sociale. Ma non dipende solo dalle scelte dei singoli, come ha ribadito una commissione della rivista Lancet: tra i fattori di rischio anche l’inquinamento del cibo, dell’acqua e dell’aria.