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Cancro colon retto, le cellule dicono se c'è rischio recidiva


provette laboratorio afp

Un team di ricercatori dell’Istituto europeo di oncologia di Miano ha scoperto un nuovo fattore prognostico per il tumore del colon retto. Gli scienziati hanno individuato una popolazione di cellule immunitarie la cui presenza più o meno importante nel tessuto tumorale contribuisce a segnalare se i pazienti, dopo l’operazione, sono ad alto rischio di recidiva e necessitano quindi di cure mirate. I risultati della ricerca, sostenuta da Fondazione Airc, WordlWide Cancer Research e Fondazione Ieo-Monzino, sono stati pubblicati su ‘Nature Communications’. Secondo gli autori, dunque, “un gruppo di cellule immunitarie può predire il rischio individuale di ripresa della malattia”, aprendo alla possibilità di “offrire cure mirate ed evitare trattamenti non necessari”.

“Oltre il 40% dei pazienti con tumore del colon retto va incontro a una recidiva dopo l’intervento chirurgico, indipendentemente dalla terapia che segue, ma non riusciamo a prevedere a priori quali – sottolinea Luigi Nezi, direttore dell’Unità di Microbiome and Antitumor Immunity in Ieo e co-responsabile dello studio – Definire nuovi e più precisi criteri per prevedere il rischio di ripresa della malattia è una delle priorità per la cura di questo tumore, il terzo più diagnosticato al mondo. Una stratificazione dei pazienti in base al rischio di recidiva consentirebbe non solo di fornire cure più mirate, ma anche di evitare trattamenti non necessari. Per questo, insieme a un gruppo di chirurghi, oncologi medici e infermieri, abbiamo intrapreso lo studio sistematico delle cellule immunitarie che infiltrano il tessuto tumorale. Il nostro sistema immunitario è infatti in prima linea nell’evitare l’insorgere di neoplasie e dal fallimento di tali meccanismi di controllo derivano le recidive”.

“Analizzando le caratteristiche molecolari dei tessuti intestinali tumorali e non tumorali in campioni di oltre 40 pazienti aderenti al nostro studio – riferisce Teresa Manzo, co-responsabile del lavoro e a capo dell’Unità di Immunometabolism and Cancer Immunotherapy in Ieo – abbiamo osservato che i tumori maggiormente infiltrati da neutrofili dalla peculiare alta espressione della molecola CD15 (CD15high) contengono anche molte cellule immunitarie di tipo T CD8 effettrici di memoria. Queste ultime sono solitamente associate a una efficace risposta antitumorale, ma in presenza dei neutrofili-CD15high producono invece alti livelli di Granzima K (GZMK), una molecola in grado di rimodellare i tessuti circostanti il tumore e favorirne l’aggressività”.

“I neutrofili sono tra le prime cellule del sistema immunitario ad arrivare nella sede dell’infiammazione, dove contribuiscono sia a neutralizzarne la causa sia, in un certo senso, a sanificare il microambiente”, ricorda Silvia Tiberti, prima autrice dell’articolo. “Tuttavia – precisa Manzo – è essenziale che il loro intervento sia controllato e limitato, altrimenti contribuirebbero a cronicizzare l’infiammazione, anziché a risolverla. Le nostre analisi hanno invece dimostrato che nei tumori colorettali spesso i neutrofili rimangono attivi e, promuovendo la produzione di Granzima K da parte delle cellule T CD8, rendono queste ultime pro-tumorigeniche”. Ecco perché, secondo i ricercatori Ieo, “possiamo considerare un profilo immunologico caratterizzato da neutrofili CD15 e cellule T CD8 effettrici di memoria con alto GZMK un nuovo fattore prognostico che indica una predisposizione alla progressione tumorale”.

Il successo di questo studio – rimarcano dall’Irccs fondato da Umberto Veronesi – ha alla base la stretta collaborazione esistente in Ieo tra la ricerca e le divisioni cliniche di Chirurgia dell’apparato digerente e di Oncologia medica gastrointestinale e Tumori neuroendocrini, oltreché con la Biobanca e tutti i pazienti e i familiari che hanno aderito allo studio. Ora la sfida è come utilizzare questo nuovo strumento prognostico anche dal punto di vista terapeutico. “Ciò che possiamo fare da subito – ritiene Nezi – è mettere in regime di stretta sorveglianza i pazienti ad alto rischio, al fine di individuare precocemente gli eventuali nuovi focolai neoplastici. Nel medio lungo termine, invece, stiamo lavorando per poter utilizzare queste scoperte per sviluppare nuovi approcci terapeutici che agiscano direttamente sui neutrofili CD15high, sulla loro interazione con i linfociti T CD8 e per ridurre i livelli di GZMK nel tumore”.

In ogni caso si tratterebbe di ‘correggere’ il sistema immunitario, che in questo caso viene cooptato dal tumore per favorirne lo sviluppo anziché proteggerci. “Concettualmente questo punto è molto importante – conclude Manzo – soprattutto considerando il momento storico in cui ci troviamo. Oggi le terapie con inibitori dei checkpoint immunitari, risvegliando componenti del sistema antitumorale, ci stanno mostrando come sia possibile non solo eliminare le cellule cancerose ma anche tenerne memoria, impedendo il ripresentarsi della malattia. Tuttavia questo non vale per tutti i tumori e, nel caso del colon retto, ne beneficia meno di un decimo dei pazienti. Anche in questo ambito il nostro studio ha dato importanti indicazioni che utilizzeremo per migliorare l’efficacia dell’immunoterapia, soprattutto per quei pazienti che, al momento, non rispondono”.

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